Prima squadra

Il personaggio: Mirko Pigliacelli

Estratto dall'intervista esclusiva rilasciata a Il Centro la scorsa settimana

06.09.2017 00:28

«Se vado in A, mi sposo. Può scriverlo»: Mirko Pigliacelli, il portiere del Pescara di Zeman che ha battuto la concorrenza interna di Vincenzoi Fiorillo, fa capire quale aria si respira a casa Pescara. Piedi per terra, per umiltà, ma voglia di volare. Da un palo all'altro per negare il gol agli avversari, come contro il Foggia al debutto (un match che porta la sua firma: senza i suoi interventi, il risultato infatti non sarebbe stato così rotondo...), ed insieme ai suoi compagni per centrare l'obiettivo. Quale? Il ritorno in serie A. Da protagonisti e dalla porta principale. 
Ecco l'estratto della intervista in esclusiva rilasciata a Il Centro dal quasi 24enne portiere biancazzurro la settimana scorsa. 
Pigliacelli, dopo 4 anni di spezzoni di partita e di prestiti in giro per l’Italia, è arrivato il suo momento.
«È vero, sono qui dal 2013 e finalmente è arrivato il mio momento. Ho sempre desiderato di vestire questa maglia. Nel 2013, nel primo anno con Marino, ho giocato pochissimo, poi i prestiti a Frosinone, Vercelli e Trapani. Sono andato via dal Frosinone, subito dopo la promozione, nonostante un contratto molto importante, e sono tornato qui. E’ sempre stato il mio pallino giocare con questa maglia. Ho fatto bene a Trapani, Reggio Calabria e Vercelli, ma ho sempre avuto la testa a Pescara». 
Miglior esordio non poteva esserci. Lei è stato uno dei migliori in campo nella gara con il Foggia. 
«Bella, bellissima, una delle più belle partite della mia carriera. Non potevo chiedere di meglio. L’intervento più difficile qual è stato? Forse, il primo tiro di Fedato, al pronti via, a freddo. Il primo tiro della partita non è mai facile pararlo».
Felice di non aver firmato per l’Avellino, club che voleva ingaggiarla agli inizi di luglio?
«Non volevo andare via. Sto bene qui, la città è bella, c’è una tifoseria super e una società seria. La mia idea, prima del ritiro, era solo quella di giocarmela da protagonista. Zeman voleva un portiere come me e quando si è presentata l’offerta dell’Avellino ho rifiutato».
Carattere spigoloso, ma sempre schietto e sincero. La descrivono così.
«Nel calcio, forse, la sincerità è un difetto, ma io sono così. Non amo mezze le misure e non sono un ruffiano. Chi mi conosce, sa come sono fatto e sono sempre stato una persona leale e mai ipocrita».
Portiere fin da piccolo grazie ai consigli di papà Stefano, vero?
«Sì. Sempre tra i pali, come mio padre. Lui ha giocato nella Lodigiani. Doveva andare al posto di Garella all’Udinese, invece scelse di sposarsi e mettere su famiglia. Ha lasciato il grande calcio per divertirsi nelle serie minori, vicino casa. Io, invece, ho continuato. Papà mi ha sempre incitato, ma non si è mai impicciato più di tanto della mia carriera. Da bimbo nella partita della domenica, per esempio, lui era sempre defilato rispetto al capannello di genitori che si creava vicino al campo. Ora viene a vedermi allo stadio, mentre mia madre no. Lei non vede nemmeno la partita in tv, poi se va bene, guarda i gol».
È fidanzato?
«Sì, con Martina. Ci siamo conosciuti 4 anni fa, a Porto San Giorgio. Sarei dovuto partire per Ibiza con i miei amici, ma non sono più partito, non volevo lasciarla, e ad Ibiza non sono più tornato». 
Fiori d’arancio all’orizzonte?
«Sì (ride, ndr). Se il Pescara va in serie A, mi sposo. Alle nozze ci sto pensando, come ad un figlio».
Tra 20 anni dove si vede? 
«A Rignano Flaminio, il mio paese, sto bene, ma non credo di rimanerci. Quando finirò con il calcio andrò a Porto San Giorgio dove risiede la famiglia della mia ragazza. Lì si vive bene, c’è il mare, si mangia bene e posso andare a pesca».
Il suo hobby preferito, vero?
«Pescare è la mia grande passione. Mi rilassa».
Papà ex calciatore, mamma insegnante e un fratello ballerino. Lei come se la cava in pista?
«Lasciamo stare… Mio fratello Simone, a Rignano, ha una scuola di danza, ma io non so ballare. Ha provato ad insegnarmi, ma non sono in grado. Lui invece è un vice campione del mondo per quanto riguarda il latino americano».
Lei è un anti-personaggio, profilo basso e poca vetrina. 
«È vero, non amo i riflettori. Sono uno del popolo. Sono umile e alla mano. Una persona normalissima. Se mi chiedono foto o autografi sono felice e mi fa piacere, mentre ad alcuni miei colleghi, a volte, quasi dà fastidio. Noi giochiamo per il pubblico e per i tifosi. Faccio un lavoro privilegiato e, secondo me, i tifosi sono la parte più importante del calcio».
È cresciuto a Trigoria con le punizioni di Pjanic e Totti, che ricordi ha di quegli anni dove ha avuto Ranieri, Montella e Luis Enrique come allenatori?
«Ricordi bellissimi, sono stato 8 anni in giallorosso. Andare in prima squadra è stato bello. Sono andato in panchina diverse volte ed è stato bellissimo entrare all’Olimpico».
Pigliacelli apre l’album dei ricordi e durante l’intervista fa irruzione Guido Nanni, il preparatore dei portieri, per tanti anni nella Roma «Pigiacelli, basta, hai fatto solo una parata e già pensi di essere una star», gli urla sorridendo. «Nanni mi ha dato e mi sta dando tanto. Sono stato a Roma due anni con lui e adesso sono molto felice che sia qui».
Quanti tatuaggi ha?
«Undici, tra cui le iniziali dei mie genitori, la data dell’esordio in carriera e una frase dedicata ad un mio amico».
Lei è romano. Se le dico Francesco Totti cosa le viene in mente? 
«Un mito. Francesco poteva dare ancora tanto al calcio. E’ un grande uomo e per me è stato un vero onore allenarmi con lui. È quasi immortale, lui è la storia della Roma» 
Un giorno le piacerebbe tonare in giallorosso?
«Sì, è normale che mi piacerebbe. Quella è la squadra della mia città» 
L’ultimo Libro letto?
«”La paranza dei bambini” di Saviano. Leggo tutto, specie i libri legati allo sport».
Si è tatuato un crocifisso sul braccio, come mai? 
«Sono molto credente, ma non vado in chiesa. L’ho fatto quando è morta mia nonna. La fede è molto importante nella mia vita». 
Le piace la politica? 
«La seguo, certo. Penso, però, che chiunque la faccia provi a trarne dei benefici personali invece che pensare al bene collettivo».
Senza calcio che cosa avrebbe fatto?
«A scuola non andavo bene, però mi piaceva studiare il diritto. Senza calcio, forse, avrei fatto l’avvocato». 
Zeman cosa significa per lei?
«Lui è la storia del calcio». 

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