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I 70 anni di Nobili: "Pescara un grande amore. Zucchini un vero amico"

Una vera e propria bandiera biancazzurra

08.10.2019 00:38

Bruno Nobili e il Pescara, una storia d'amore iniziata nel 1974 e mai finita. Ha appena compiuto 70 uno dei trequartisti più forti della storia del Delfino e Il Centro nei giorni scorsi ha realizzato una splendida intervista (a firma Rocco Coletti) che volentieri vi riproponiamo per far conoscere anche alle nuove genrazioni una delle icone del club biancazzurro.

Ecco l'intervista al quotidiano abruzzese:

Per anni - dal 1974 al 1982 - il suo sinistro ha incantato i tifosi del Pescara. Era il principe dell’Adriatico. Visione di gioco, potenza e dribbling. Un centrocampista di qualità, anche se lui ama definirsi un trequartista. Nonché specialista dei calci da fermo. Un mito per il popolo biancazzurro nonostante il suo carattere poco espansivo. Al nome di Bruno Nobili sono legate le prime due promozioni in serie A, nel 1977 e nel 1979. Un bel giocatore di quelli che accendono la fantasia dei tifosi. Una carriera spesa tra serie A, B e C, a cui ha fatto seguito quella da allenatore, non altrettanto foriera di soddisfazioni. Lunedì compirà 70 anni, li festeggerà in famiglia dopo la presentazione del libro in suo onore. Nel frattempo, apre l’album dei ricordi.
Nobili, qual è il bilancio dei suoi 70 anni?
«Calcisticamente parlando, più che positivo. La mia vita è ruotata attorno a un pallone, prima da calciatore e poi da allenatore».
Rimpianti?
«Non sono uno che recrimina per carattere. Ognuno ha quel che si merita. Anche se...».
Che cosa?
«Io ero alla Roma e l’allora presidente Marchini, nel 1969, mi mandò ad Ascoli. Helenio Herrera, l’allenatore giallorosso, non voleva, perché gli piacevo come calciatore. Ma Marchini doveva un favore a Rozzi - entrambi erano costruttori - e io dovetti andare ad Ascoli. Se fossi rimasto a Roma, in A, chissà come sarebbe andata la mia carriera».
Perché?
«Io feci il debutto in serie A con la Roma da centravanti, ma ero un trequartista. Ad Ascoli andai come attaccante e non feci bene. Appunto perché avevo un altro ruolo. Ero giovane, non giocavo e mi stava venendo voglia di mollare tutto».
Poi, che cosa accadde?
«Che la Roma mi mandò a Macerata, in C, dove c’era Tony Giammarinaro, l’allenatore che mi ha rivitalizzato. Mi ha ridato forza ed entusiasmo facendo emergere le mie qualità».
A Pescara come arrivò?
«Io a Pescara venivo già quando ero ad Ascoli. Il giorno libero ero spesso qui. A Pescara venni perché il presidente Marinelli mi acquistò dal Cagliari. Fece l’operazione con il presidente Arricca. Marinelli me lo dice sempre: “Ti ho portato io a Pescara...”. Fui pagato 110 milioni, una bella cifra per l’epoca. Era il 1974 mi volle Tom Rosati. Da lì è iniziato un grande amore».
Non facile.
«Beh, non è un mistero che Cadè non mi vedeva. Era la stagione della prima promozione in A. All’inizio giocavo poco o niente. Stavo per essere ceduto. Ma a furor di popolo tornai in campo e la squadra decollò verso quella che considero la più grande gioia della mia carriera calcistica. La prima promozione in serie A per una piazza come Pescara fu qualcosa di fantastico. Indimenticabile per me, ma, soprattutto, per i pescaresi. Anche perché coincise con un momento di crescita della città. E già la seconda promozione (due anni dopo, ndr), comunque bella, non fu emozionante come la prima».
Il ricordo più brutto?
«La retrocessione dalla B alla C nella stagione 1981-82. In pratica, il mio ultimo anno a Pescara».
Lei è nato a Valencia, in Venezuela.
«Mio padre per spirito di avventura decise di lasciare il posto in aeronautica, a Roma, e andò in Sudamerica. Fece diversi lavori fino a diventare un apprezzato produttore di tappezzerie per automobili. Io nacqui a Valencia, ma a 5 anni ero già tornato a Roma. E lì sono cresciuto. Ho ricordi sfuocati degli anni vissuti in Venezuela. E anche calcisticamente non ho subito alcun influsso».
A Pescara otto anni con alti e bassi.
«Nel 1977 prima di riprendere il posto in squadra stavo per essere ceduto al Genoa; nel frattempo, tornai titolare e non se ne fece niente. Poi, c’è stato un altro momento in cui potevo andare via, ma io l’ho saputo dopo. A quell’epoca non c’erano i procuratori e il vincolo calcistico, di fatto, ti faceva prendere dalle labbra dei presidenti. A distanza di tempo ho saputo di essere stato sul punto di passare all’Inter. Mi voleva Bersellini, ma l’operazione non andò in porto e i nerazzurri presero Beccalossi dal Brescia».
Com’è cambiata la piazza di Pescara?
«Noto meno entusiasmo, di certo non quello di una volta. Non solo nel calcio. Prima c’erano più calore e passione. Oggi i giocatori sono più distanti dal pubblico».
Qual è l’amico che le ha dato il calcio?
«Il compianto Vincenzo Zucchini. Avevamo feeling, in campo e fuori. Dicevano che eravamo sposati. Anche le nostre famiglie erano e sono unite».
Oggi Brugman è il giocatore che più ricorda Bruno Nobili?
«Sì, ci somigliamo sia pur con alcune caratteristiche diverse».
Che giocatore era Nobili?
«Un trequartista che oggi giocherebbe nel ruolo di mezzala. Ma essenzialmente un giocatore d’attacco».
Lei era uno specialista dei calci da fermo. Un rigorista impeccabile, ad esempio.
«Per calciare i rigori serve freddezza. Chi li tira ha tutto da perdere, perché è scontato che faccia gol, mentre il portiere se para fa il miracolo altrimenti tutto nella norma. Poi, ci sono rigori e rigori. Ad Avellino, a 20 anni, realizzai il rigore decisivo contro il Lecce, quello della promozione in serie B».
E le punizioni?
«Servono doti tecniche e balistiche. Che, però, vanno coltivate attraverso l’allenamento. Tante volte sono rimasto a calciare le punizioni a fine allenamento. Bisogna allenare il talento. Calciare le punizioni non è una scienza esatta, ma quasi».
Lei passava per non essere uno dal carattere facile.
«Diciamo che mi sono attaccato con quegli allenatori che mi impartivano ordini che non condividevo. Avevo il coraggio di dire le cose che pensavo. Poi, a volte, certe prese di posizione mi sono state fatte pagare. Capita».
Qualche nome?
«Beh, con Cadè non mi prendevo molto. Lui non mi vedeva all’inizio, poi ha avuto bisogno di me. Poi, mi ha rifatto fuori. C’è stato un rapporto un po’ conflittuale».
Poi?
«Mi sono attaccato con Aldo Agroppi, ma l’ho rivalutato e stimato come uomo, perché ha avuto il coraggio di chiedermi scusa. “Non sei come pensavo che fossi”, mi ha detto. E io gli ho stretto la mano».
Il gol più bello?
«A Bologna, in rovesciata. Nel primo anno di A con il Pescara».
È diventato ricco con il calcio?
«Ai miei tempi con il pallone si viveva bene, ma non si diventava ricchi. Ho visto gente che si è rovinata, nonostante i buoni guadagni».
Il presidente che le ha voluto più bene?
«Dicevano che ero il cocco di Capacchietti, ma non mi trattava come tale. Anzi, ricordo che mi fece una multa di 800mila lire per un’espulsione contro il Cagliari e non ci fu verso di toglierla».
In quale momento storico si trova oggi il Pescara?
«In una fase in cui la città dovrebbe apprezzare di più quello che ha, ovvero una squadra in serie B. Tante piazze perdono il calcio professionistico, Pescara resiste. E di questo va dato atto al presidente Sebastiani».
A parte Pescara a quale altra piazza si sente legato?
«Ad Avellino. Quella promozione in B del 1973 è stata indimenticabile. Conquistammo 62 punti, ancora oggi il record con le vittorie a due punti».
Nobili e il calcio d’oggi.
«Ai mie tempi non c’era quell’attenzione sul calciatore come oggi. All’epoca prima di andare in campo mangiavamo riso e filetto. Adesso tutto viene curato di più: dall’alimentazione alla preparazione atletica e questa evoluzione si ripercuote sullo spettacolo calcistico. Ai miei tempi era diverso, più alla buona. Certo, oggi il calcio è più veloce, ma in un contesto diverso. In quanto a tecnica, però, penso che la mia generazione fosse ben fornita».

 

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