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Buon compleanno, Galeone! Il nostro "regalo" al "Profeta"

«Io, il 4-3-3 e la sinistra perduta»: riproponiamo l'intervista rilasciata al Riformista in occasione dei suoi 70 anni

25.01.2018 00:48

Buon compleanno, Profeta! Sono 77 le candeline che oggi spegne l'allenatore che più di ogni altro ha legato il suo nome al Pescara. Per celebrare la ricorrenza, abbiamo deciso di regalare a lui e ai nostri lettori il ricordo di una splendida intervista: quella rilasciata da Giovanni Galeone a Tommaso Labate per Il Riformista, nella quale raccontò i suoi primi settant’anni. E' del 2011, ma sempre bella. Buona lettura!

È tornato Zeman, è tornato Dan Peterson. Lui no, non tornerà. È l'ultimo dei 54 minuti di chiacchierata col Riformista, l'unico momento in cui la voce del Profeta tradisce una punta d'amarezza. «No, non mi siederò mai più su una panchina. Un po' per la condizione fisica, che comunque è un problema che si risolverebbe chiamando un “secondo” giovane e in forma. Ma soprattutto perché non riesco ad avere più un rapporto con i calciatori. Me ne sono reso conto quattro anni fa, ad Udine. Non li sopporto più, i calciatori. Ormai hanno un potere contrattuale spaventoso, che porta molti di loro a non avere rispetto per la divisione dei ruoli. Scegli di non far giocare uno e quello mica te lo dice in faccia. No, si lamenta col suo procuratore, che poi chiama il direttore sportivo, che il giorno dopo chiama te».

Peccato, non è più calcio per Giovanni Galeone. Il Profeta che tra dieci giorni compirà settant'anni. Dal «suo» 4-3-3 a «quella notte a Vienna con Silvio Berlusconi», dalle partitelle a pallone col «genio» Pasolini all'intuizione su Ibrahimovic, dal «maestro» Liedholm alla «puttanata» sui libri di Prévert portati in panchina. E il Pescara dei miracoli. E il calciatore più forte mai allenato, Blaž Sliškovic, «uno che nel calcio di oggi, con un procuratore dietro le spalle, si giocherebbe il pallone d'oro».

Galeone sfoglia un album dei ricordi lungo sette decenni. E ora che manca poco all'appuntamento con le settanta candeline, scaccia ancora una volta la parola «rimpianto» dal suo vocabolario: «La verità è che non sono mai stato invidioso. Giusto un po' d'invidia nei confronti degli intelligenti e dei colti. Per il resto, me ne sono fregato dei soldi, della fama e dei successi altrui. Quando ho potuto, ho brindato con lo champagne. Altrimenti mi son sempre andati bene anche il prosecco o la spuma Cirutti».

Impossibile cavarsela dicendo che «in fondo è solo un allenatore di calcio». D'altronde, il suo bouquet di aforismi lo rende più simile al Barney dell'omonima Versione di Richler che a un Guidolin qualsiasi. Ha mandato pubblicamente «affanculo» Berlusconi negli anni 2000, disse che non avrebbe fatto marcare a uomo nemmeno Maradona («Perché mi creerebbe un buco a centrocampo») nel 1989, impose ai suoi atleti solo «allegria e libertà d'azione, come se giocassero sul pavimento di casa» nel 1986 e soprattutto ha sempre ricordato che la zona e il 4-3-3 li fatti prima lui, «e poi Zeman».

La sua storia di giovane emigrato napoletano si fa favola nel 1986. Quando gli scarpini da calciatore sono al chiodo da un pezzo. «La mia fortuna», racconta al Riformista, «era stata allenare le giovanili dell'Udinese. Altra epoca. Trovavi ragazzini che venivano agli allenamenti e ti dicevano: “Mister, ma sa che ieri ho visto il Bruges, giocavano con 5 difensori, 2 centrocampisti e 3 punte?”. Sperimentavamo, provavamo». A furia di provare e riprovare viene fuori il 4-3-3, con cui il Profeta fa girare la Spal dall'83 all'86. «Gustinetti, Bresciani e Trombetta avanti. Dietro di loro tre mezz'ali vere». Nel 1986 è l'ora di Pescara. «Giocavamo a zona solo noi e il Parma di Arrigo Sacchi. Solo che la mia era una squadra costruita per non retrocedere. Arrivammo primi». Il battesimo in serie A, l'anno dopo, è a San Siro contro l'Inter. «Vincemmo per 2 a 0. Ricordo ancora che la sera finii a discutere con Sivori alla Domenica sportiva. Il grande Omar sosteneva che chi giocava a zona era destinato a retrocedere. Io risposi che di 40 squadre che retrocedevano ogni anno, almeno 39 giocavano a uomo. Ti credo, a zona giocavamo solo noi...». Oggi tutto il calcio è la rivoluzione di Galeone. «L'unico da cui un po' ho copiato è stato il grande maestro Nils Liedholm. No, Zeman no. Lui è arrivato dopo di me».

IL PAPA’ DELLA RIVOLUZIONE.

Il Pescara di Galeone è leggenda ancora oggi. «Non c'erano grandi soldi, per cui fummo costretti a sacrificare i due “gioielli” che erano stati protagonisti in serie B. Rebonato e Bosco», racconta il Profeta. In società fa il suo ingresso l'imprenditore Pietro Scibilia, che con la sua «Gis» sponsorizzava le pedalate di Francesco Moser. «Cominciammo a girare nei migliori hotel. Le divise, elegantissime, le produceva una nota azienda abruzzese, da cui si serviva anche l'Avvocato Agnelli. Romeo Anconetani, presidente del Pisa, diventava matto quando le vedeva. Una volta mi disse: “Ma dove cazzo le prendete queste sciccherie qua?”». La squadra diventa uno squadrone. Undici uomini, di cui due star: il pluri-blasonato brasiliano Junior e soprattutto il bosniaco Sliškovic. «Leo Junior era già stato in Italia, al Torino. Ma con Gigi Radice s'era trovato malissimo. Lo convinse il suo grande amico Zico», ricorda il mister, «a venire a Pescara. “Vai da Galeone ché è tutta un'altra musica”. gli disse. Lo vedo ancora, Junior. Ragazzo generosissimo. È venuto dal Brasile per giocare una partita di vecchie glorie per i terremotati dell'Aquila».

I PIEDI DI  SLISKOVIC.

Quando gli si chiede chi è stato il giocatore più forte mai allenato, Galeone risponde senza esitazioni. «Sliškovic. Mai vista una mezz'ala con quel tocco di palla. A Marsiglia l'avevano scaricato per lanciare Abedì Pelè. Quando venne da noi, dopo un'amichevole estiva, Liedholm mi disse: “Giovanni, ma dove l'hai preso questo qua?” Giocasse nel calcio di oggi, con un Moggi qualsiasi alle spalle sarebbe da pallone d'oro». A Pescara segna 8 gol in 23 partite. Poi l'oblio. «“Baka” non raccolse quel che meritava. Anche per colpa della guerra. Lui era un bosniaco, la nazionale jugoslava venne cancellata e per lui cominciò il declino. Peccato, davvero un peccato. Soprattutto perché era ed è un ragazzo serio, una persona splendida. Se lo sento ancora? Certo, chiama sempre per farmi gli auguri durante le feste».

LA PUTTANATA DI PREVERT.

Accanto al Galeone «maestro del calcio champagne», emerge il Galeone intellettuale. Il mister «di sinistra», l'acuto divoratore dei libri di Camus e Sartre. Il «Profeta», insomma, che porta Prévert in panchina. «Ma quella era una puttanata», sorride oggi a tanti anni di distanza. «In panchina portavo le Marlboro, mica Prévert. Successe tutto perché dissi a un giornalista che leggevo gli autori francesi. E quello tirò fuori questa storiella». E poi, «il mio calcio era soprattutto allegria. Al contrario di Prévert, che era uno scrittore triste». Gli ideali di sinistra no, quelli erano e sono autentici. Galeone nasce da una famiglia benestante e liberale. «Papà era un ingegnere, non mi è mai mancato nulla. Però da casa sono andato via subito, senza mai chiedere nulla. Nel Dopoguerra ho visto la fame, quella vera, negli occhi della gente. E una sinistra che, nonostante momenti drammatici come i fatti d'Ungheria, è sempre stata unita. Adesso non è più così. Oggi la sinistra, di fatto, è quasi inutile. Infatti Berlusconi è ancora là da quindici anni». Speranze? «I comunisti di una volta erano un'altra cosa. Avesse avuto un Berlinguer da sconfiggere, Berlusconi non avrebbe vinto manco un'elezione. Oggi però i comunisti non ci sono più. O meglio, esistono solo nelle fantasie del presidente del Consiglio». Quel che vede, a Galeone, non piace. Neanche in politica. «A sinistra litigano, fanno un'opposizione “contro”. Però non hanno una proposta politica seria da fare al Paese. Prendiamo Vendola, che pure sembra uno serio e intelligente... Ma che cosa ha da proporre? Spero che le cose cambino». In fondo, sono riflessioni di chi ha visto da vicino anche Pier Paolo Pasolini. «Fine anni '60. A Grado lui stava girando Medea con la Callas. Noi - io, Capello, Reja, Sormani - passavamo le estati là, anche per fare le sabbiature. Giocavamo a pallone, e Pier Paolo era fortissimo. Ma la cosa che mi rimase più impressa successe nello spogliatoio. Quando Raf Vallone, che pure era una star internazionale, ascoltava le parole di questo grande intellettuale a bocca aperta».

TRA BERLUSCONI E MORATTI.

All'alba dei settant'anni, Galeone vive tra Udine e Pescara. Per lui, che ha innaffiato di calcio champagne le piazze di provincia (Pescara e Perugia su tutte) e ha lanciato per primo l'allarme doping («Fui il primo a parlare di Epo»), non c'è mai stata una “grande”. «Moratti mi chiamò due volte. La prima, nel 1995, disse però che mi stimava troppo per affidarmi una squadra che lui stesso non riteneva all'altezza». Con Berlusconi fu diverso. «A Vienna, nel 1990, la sera della finale vinta dai rossoneri contro il Benfica, mi ritrovo a passeggiare con Sacchi verso il loro albergo. In hotel, erano le 3 di notte, troviamo Berlusconi che parlava con altri giocatori, tra cui Massaro. Quando il Cavaliere mi vede chiede ad Arrigo: “Non ti dispiace se parlo un po' col mister Galeone, no?”. Discutemmo di pallone fino alle 5 di mattina. Alla fine Berlusconi mi disse: “Galeone, mi telefoni. Ho dei grandi progetti per lei”. Non l'ho mai fatto».

Un decennio più tardi, quando si trattò di difendere il ct Zoff dal j'accuse berlusconiano dopo la finale dell'Europeo persa contro la Francia di Zidane, il Profeta disse pubblicamente: «Avesse detto quelle cose a me, l'avrei mandato affanculo». Oggi al Milan c'è un suo allievo, Allegri. «Volete sapere com'era Max da calciatore? Primo, intelligente. Secondo, credo che non abbia mai messo piede in una discoteca. Terzo, non l'ho mai visto con una donna che non fosse bellissima, intelligentissima e ricchissima. Adesso lo sento almeno una volta a settimana. Mi dice che al Milan è molto contento, che là si lavora benissimo». Però è un peccato che, nell'anno del signore 2011, questo non sia più un calcio per Galeone. «Questo pallone s'è ripreso lentamente dopo essere stato mortificato per 10 anni dal 4-4-2 dei falsi imitatori di Sacchi. Per un decennio il calcio è stato prendersi a calci a centrocampo, nulla di più. Il più forte oggi? Ibrahimovic, sui cui avevo puntato nel 2001. Una sera telefono al mio secondo a Pescara, Marco Giampaolo. E gli dico: “Accendi la tv e vedi che cosa sa fare il centravanti dell'Ajax, quello alto. Poi fammi sapere”. Oggi però il pallone è scaduto. In serie A arriva gente che vent'anni fa non l'avrebbe vista manco col binocolo. Allora in difesa c'era gente come Maldini e Baresi. Negli ultimi tempi, invece, Chiellini e Materazzi sono stati considerati tra i difensori più forti d'Italia. Non so se mi spiego...». Irriverente e spumeggiante come il Barney dell'omonima Versione di Richler. Un «Profeta» anche in patria. Galeone Giovanni da Napoli, tra dieci giorni settantenne. Rimarrà ancora l'idolo dei cultori del calcio gourmet. Ma non allenerà più. Potendo, berrà ancora champagne. Altrimenti s'accontenterà di prosecco o della spuma Cirutti. Senza rimpianti e senza invidia. Mai. Auguri.

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